Le conseguenze delle proteste a Hong Kong vanno dalla definitiva perdita di una possibile proiezione pacifica cinese a Taiwan alla sfida delle giovani generazioni di Hong Kong al mito dell’omogeneità dell’etnia Han. Il razzismo anti cinese dilagante tra i manifestanti di Hong Kong lascia presagire uno scontro sull’identità nell’ex colonia britannica simile al processo di "desinicizzazione" avvenuto a Taiwan. Mentre gli avvenimenti di Hong Kong hanno influenzato, in chiave anti Pechino, la campagna elettorale taiwanese.
Il corteo che si è tenuto domenica 29 settembre 2019 a Taipei in sostegno delle proteste di Hong Kong ha mostrato la grande partecipazione della società civile taiwanese alle vicende dell’ex colonia britannica. La manifestazione, chiamata “929 Taiwan Hong Kong Grand Parade – Supporting Hong Kong, Fight Against Totalitarianism” è stata organizzata da 30 associazioni di studenti, ONG e altri componenti della società civile. 100.000 persone, secondo gli organizzatori, hanno sfidato la pioggia torrenziale del tifone Mitag per mostrare il loro supporto ai manifestanti che da 18 settimane stanno protestando a Hong Kong. I manifestanti di Hong Kong hanno mostrato in questi mesi un’incredibile capacità di adattarsi alle diverse circostanze.
Per chi ha seguito le proteste del 2014 il contrasto con gli avvenimenti di questi giorni è enorme. Quotidianamente vediamo scene di violenza nelle strade di Hong Kong, assalti alle camionette della polizia, barricate, lacrimogeni e azioni di guerriglia ben pianificate. Un’escalation che i manifestanti pro democrazia hanno collegato alla spropositata reazione della polizia di Hong Kong nelle prime settimane delle proteste. Tuttavia pensare che questi ragazzi sono i fratelli minori dei timidi manifestanti che occuparono la piazza antistante il Palazzo legislativo durante la "rivoluzione degli ombrelli" rimane difficile da credere.
Il legame culturale tra Hong Kong e Taiwan è molto forte, la stessa protesta degli ombrelli è direttamente legata al Sunflower Movement partito proprio da Taiwan. Ma tante cose sono cambiate, ad Hong Kong e resta ben poco della speranza che animava la stagione del 2014. Il sentimento della frangia più estrema dei manifestanti sembra pervaso da una sorta di volontà sacrificale: “If we burn, you burn with us”. Anche il comportamento di gran parte delle popolazione era assolutamente imprevedibile, i residenti scendono in strada non appena iniziano i disordini per difendere i giovani manifestanti dalla polizia. Azioni di vandalismo vengono accettate dalla maggior parte dei cittadini come una conseguenza inevitabile della protesta. I richiami all’ordine che le generazioni adulte avevano lanciato durante la rivoluzione degli ombrelli non si sono ripetuti in questi mesi ad Hong Kong. Il pragmatismo Confucio non ha veicolato “un ritorno al privato”, le attività commerciali in città stanno soffrendo e l’economia registra picchi negativi ma niente sembra poter fermare un rivolta che ormai ha travalicato le iniziali motivazioni.
A Taiwan si osservano con grande attenzione le vicende di Hong Kong. Gli eventi nell’ex colonia britannica hanno profondamente modificato la percezione delle Cross Strait Relation, la stessa posizione del KMT, il partito più vicino a Pechino, è cambiata radicalmente. Il Chairman del Kuomintang Wu Den-yih ha espresso la sua contrarietà rispetto alla violenza delle forze di polizia a Hong Kong e ha dichiarato esplicitamente che Taiwan è uno stato sovrano e indipendente e non può essere in nessuna maniera paragonata ad Hong Kong. Il candidato alla presidenziali del 2020 Han Kuo-yu per il KMT aveva inizialmente evitato sia di esporre la sua visione delle Cross Strait Relation sia ogni riferimento alle proteste di Hong Kong. Già dai mesi scorsi ha dovuto modificare il suo approccio, dichiarando solidarietà agli abitanti di Hong Kong e negando in maniera inequivocabile la possibilità di iniziare un percorso basato sulla formula “una paese, due sistemi”.
La presidente Tsai Ing-wen, che qualche mese fa i sondaggi descrivevano come destinata ad una sconfitta annunciata, sembra non avere rivali oggi. Di fronte agli avvenimenti di Hong Kong il neo populismo di Han, tutto improntato alla ricerca di un crescita dell’economia anche a fronte di aperture a Pechino, si è mostrato inefficace. Il supporto di Washington alla Presidente Tsai è stato un’altro importante segnale, di fronte alla continua erosione degli alleati diplomatici e ai tentennamenti dell’Occidente gli Stati Uniti restano la sola e unica ragione di sopravvivenza per Taiwan. Molto si era scritto sull’approccio di Donald Trump rispetto a Taiwan, la stampa statunitense e gran parte degli studiosi internazionali avevano ipotizzato la possibilità di un uso strumentale della questione taiwanese. Ma Washington si è mostrato un alleato solido e affidabile in questi anni, probabilmente come non avveniva da alcuni decenni.
Le proteste di Hong Kong hanno soprattutto accelerato quel processo di riconfigurazione dell’identità nazionale taiwanese iniziato a metà degli anni 90. Fino a quel momento solo una minoranza era convinta della necessità di un processo di autodeterminazione e dell’appartenenza a una cultura ben distinta da quella cinese. La possibilità di una riunificazione in quegli anni era ben lontana, anche i sostenitori di un processo di avvicinamento con Pechino restavano decisi ad attendere una sorta di trasformazione democratica in Cina. Tutto il mondo all’epoca guardava con speranza a Pechino e gli analisti erano certi dell’avvio di un processo lento e graduale di apertura democratica del paese. Molte cose sono cambiate, la Repubblica Popolare cinese ha lanciato la sfida all’egemonia statunitense e l’ordine mondiale è profondamente mutato. L’identità nazionale taiwanese si è ormai definitivamente allontanata da quella cinese, ogni anno i sondaggi disegnano una popolazione sempre più indifferente rispetto a Pechino.
La continua pressione nei confronti della proiezione internazionale taiwanese hanno determinato una ulteriore divisione tra le due sponde dello stretto. Di fronte agli avvenimenti di Hong Kong la formula “un paese, due sistemi” perde qualsiasi attrattiva a Taiwan, anche per i più strenui sostenitori della necessità di un avvicinamento a Pechino. La graduale erosione dei diritti civili nell’ex colonia britannica ma soprattutto la sempre più difficile situazione economica hanno mostrato tutti i limiti del “one country, two system”. I grandi capitali cinesi hanno determinato un’incredibile speculazione immobiliare che ha di fatto reso impossibile per le giovani generazioni di Hong Kong il mantenimento di uno stile di vita accettabile. La mobilità sociale nell’ex colonia britannica è sempre più limitata mentre le libertà civili sono minori. Proprio a gennaio Xi Jinping aveva nominato la soluzione del “un paese, due sistemi” per il futuro delle relazioni sino taiwanesi, una formula che era stata prevista da Deng Xiaoping proprio per Taiwan per poi essere adottata ad Hong Kong. Le vicende dell’ex colonia britannica, le proteste ma anche la deriva economica e sociale nell’isola, hanno definitivamente allontanato Taiwan dalla Cina. Ma osservando il percorso dell’identità nazionale taiwanese rispetto alle proteste di Hong Kong emerge un grande pericolo per la Repubblica Popolare cinese.
I manifestanti ad Hong Kong hanno sviluppato in pochi mesi una dialettica fortemente influenzata da una divisione etnica, i cartelli e gli slogan sono diretto contro i cinesi non solo contro il Partito Comunista. I cori razzisti mostrano una dimensione inedita, che apre scenari complessi rispetto al futuro di Hong Kong. La stampa della Repubblica Popolare cinese non ha mai evidenziato questa dimensione, conscia della problematicità della questione.
La sfida culturale al mito dell’etnia Han, un tassello centrale della costruzione della moderna nazione cinese, è una battaglia che Pechino non può permettersi di perdere. Ma è una battaglia che si combatte con le armi della persuasione e il cosiddetto sharp power cinese ad Hong Kong finora non è sembrato adeguato alla vittoria dei cuori e delle menti.
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Stefano Pelaggi ( 史大福 ) redattore di Geopolitica.info Relazioni istituzionali Stefano.pelaggi@uniroma1.it – @StefanoPelaggi
Docente di “Nazionalismi e minoranze nazionali in Europa” e in “Development and processes of colonization and decolonization” a Sapienza Università di Roma, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in “Storia dell’Europa” presso Sapienza Università di Roma. Vice direttore del quotidiano L’Italiano, si occupa di di Storia e relazioni internazionali, principalmente nell’area dell’Asia-Pacifico Autore di numerosi saggi ed articoli su tematiche storiche e di relazioni internazionali. Collabora con il Centro di Ricerca “Cooperazione con l’Eurasia, il Mediterraneo e l’Africa Subsahariana” e svolge attività di ricerca e docenza presso varie università tra cui Libera università di lingue e comunicazione IULM di Milano e Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma.